martedì 15 maggio 2012

Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?


La crisi economica. I politici corrotti. I suicidi. Sono questi oggi gli argomenti delle pagine dei giornali, delle rubriche, delle inchieste televisive. Una realtà che stride con quella presentata nella réclame degli Ipod, degli iPad, degli Iphon.
La “parola”, per dirla alla Fazio & Saviano, sempre più ricorrente è rivoluzione. Naturale risposta al profondo malessere che sta logorando gli ultimi brandelli di serenità e di lucidità di molti italiani. E non solo.
Da siciliano irriducibile mi è venuto in mente un grande questore, la cui onesta amministrazione rese felici siciliani per molti anni. In seguito fu sostituito da un uomo corrotto in modo spaventoso che rubava, neanche intelligentemente. I siciliani allora ricorsero a lui per essere difesi ed egli lo fece con grande successo. Correva l’anno 70 a.c.  e quell’uomo era Marco Tullio Cicerone.
Si, perché quello che oggi provano gli italiani, i siciliani lo vivono da più di duemila anni. I primi indignados sono stati probabilmente loro. La Sicilia è stata sempre dominata dalla potenza di turno. Hanno sempre subito interessi politici nati e gestiti in luoghi distanti anni luce dalla loro vita. Una sorta di italiani di scorta. I Re di turno non risiedettero mai in loco. Da sempre un popolo ed una terra solo da mungere dove lo Stato è sempre stato assente. Salvo ricordarsene per esigere i tributi o andare a morire in guerra per un’Italia che non li ha mai cagati. Né prima né dopo.
È in questo distacco tra Stato e cittadino che muore il senso di appartenenza allo Stato. Noi siciliani lo conosciamo bene. Duemila anni di storia prima o poi te lo ficcano bene nel cervello e nel DNA. Oggi però queste radici hanno incominciato a invadere le menti di molti italiani.
Guardando l’impero romano di allora, duemila anni fa Cicerone fece le stesse considerazioni che oggi descrivono e interpretano perfettamente la situazione odierna, il suo disagio, le sue cause. I suoi rimedi.
Riporto alcuni appunti copiati da me tempo fa da uno studente ricercatore di cui purtroppo non ricordo il nome, che  altrimenti citerei volentieri, per la completezza e l’accuratezza del suo lavoro.

Cicerone era un politico oltre che un avvocato e aveva capito che bisogna rinnovare la cultura: produsse  un nuovo modello culturale, un nuovo modello di società, un nuovo modello di uomo (humanitas).
Punti del pensiero: Cicerone parte dalla constatazione della crisi della società romana, una crisi politica e dei valori. Le istituzioni erano degenerate, non riuscivano più a far politica, non erano più autorevoli, ma erano invece vittime dei giochi di parte. La politica non perseguiva più il bene del cittadino, ma era pregnata di arrivismo, di lotte di fazione.
I politici erano dei mediocri, vale a dire, o erano scarsamente intelligenti o erano persone senza scrupoli. Mancava il senso civico nel politico, il quale ormai obbediva solo all’ambizione. Mancava la moralità della politica.
Era stato perso il senso dello stato. La politica era passata dall’universalità al personalismo. Ma perché questa crisi politica? La crisi politica era specchio della crisi della società. Non bastava quindi cambiare la politica, ma bisognava cambiare la società e l’uomo.
Cicerone vide che i valori non esistevano più. Ormai il Romano aveva perso il senso della propria identità, perché non aveva più punti di riferimento, …, senza idee di sé stesso e della propria vita.
Osservò la lontananza fra i giovani e la politica, le nuove generazioni erano aliene all’idea di Stato, erano proiettate nel godimento immediato dei sensi. I giovani avevano perso un’idea costruttiva di sé e del futuro, erano apatici, indifferenti. […]. Bisognava ricostruire i valori.
La tradizione romana non era negativa, il mos maiorum (letteralmente “il costume degli antenati)  era valido e per questo Cicerone cercò di salvare ciò che c’era di buono.
IL mos maoirum  era valido poiché aveva dei valori validi, come la fides (la fedeltà nei rapporti umani), l’impegno dell’uomo in politica. Per cui poteva essere utile, proprio in politica per eliminare i personalismi e farla ritornare ad attività di tutti.
Proprio per questo bisognava cercare di far apprezzare il mos maiorum ai giovani, ma doveva essere applicato ai tempi, doveva essere addolcito e andava fatto amalgamare con la società del tempo. Occorreva, come sosteneva Cicerone, elasticità: difendere alcuni valori fondamentali, ma cercare di temperarli con nuovi stili di vita.
Era necessario evitare rigorismi ed estremismi.
Il principale strumento era l’educazione, per questo Cicerone ricorse ad una riforma della cultura. […]. La riforma culturale è di per sé positiva in quando forma l’uomo e lo rende capace di ragionare e di scegliere. Cicerone volle quindi offrire ai giovani dei valori semplici e fargli sembrare naturale l’impegno.”

La storia ci insegna e ci ammonisce. In tempi meno lontani , ma ahimè sconosciuti a molti giovani, la società  fu succintamente divisa in proletariato, ceto medio e borghesia. Il concetto di «proletariato», o chi per lui, è oggi percepito da meno di un terzo degli italiani, che tendono ad usare il termine povertà. Nel concetto di «borghesia» oggi si tende a identificare la classe dirigente, l’élite intellettuale  illuminata e illuminante  (Giuseppe Sarcina). Il ceto medio  oggi è inteso e identifica la massa anonima e indifferenziata, animata solo da pulsioni individuali e istinti legittimi di miglioramento del proprio conto economico: un miscuglio cha sta alla base delle loro scelte e che “giustifica” la loro corsa sregolata al guadagno ed all’arricchimento anche illecito. Mentre nel passato il ceto medio e la borghesia erano concorrenti, oggi sono soltanto due modi di essere.
Come si è passati dal «personalismo», dal Kierkegaard fino a quel Marx che invitava a recuperare la propria dimensione interiore e la facoltà di cambiare il proprio destino con le proprie mani, allo sfacelo, soprattutto morale, che connota la classe politica odierna, specchio della società in cui viviamo?
Norberto Bobbio, in un suo scritto o in un’intervista, ora non ricordo, spiegò tale passaggio con la scomparsa della “mitezza”, intesa come qualità virtuosa della borghesia, e della visione corale della società.
Esse vennero eclissate dall'arroganza amorale e dall'egoismo, che incanalarono la società nell'iperbole «dell'io» con Silvio Berlusconi e «il berlusconismo». É l’era dal «presentismo»
Il «presentismo» della politica, che non significa solo governare pensando a se stessi (le leggi ad personam di Berlusconi), ma coniare addirittura un nuovo modello culturale dove «il mondo è dei furbi».
Un profluvio di indagini statistiche confermano che in tale periodo sfumano il senso del peccato e del reato: l'85% degli italiani, con un picco fino al 91% nelle grandi città, ritiene che la coscienza debba essere l'unico arbitro dei propri comportamenti e il 67,6% ritiene che le regole non debbano soffocare la realtà personale.
La parabola del berlusconismo è giunta al termine ed i risultati di questa mentalità è ora sotto gli occhi di tutti.
Ora è il momento di sostituire nel discorso pubblico «l'io con il noi». Il tempo delle deleghe è finito.
Ereditiamo una classe dirigente di rubagalline e di cialtroni ancora perfettamente in sella, che ha trasformato la società in un sistema delle tangenti, piegata a quella mafia che approfittando dell’indifferenza prodotta dalla perdita del senso civico, oggi  stringe alla gola di migliaia di imprenditori. Ereditiamo una classe dirigente e politica che ha perso, se mai l'ha avuto, il senso dello stato, del "servire il popolo". Una classe politica che litiga sugli scranni, davanti al letto della nazione moribonda,  salvo poi trovarsi compatta fino a ieri nell’aumentarsi compensi e benefit nascosti in emendamenti simulati. Una classe politica e dirigente terrorizzata più dal perdere con il potere  anche i propri privilegi, piuttosto che dall’aumento dei suicidi per debiti e povertà.
La Storia insegna riproponendosi. Ciclica. Sempre.
Un altro esempio?
Il fatto: il dottor Pietro Grasso,  durante la trasmissione «La Zanzara» di Radio24, come ribadito in un’apposita nota dalla redazione, «per ben due volte nel corso della trasmissione i conduttori Giuseppe Cruciani e David Parenzo hanno chiesto al dottor Pietro Grasso (il procuratore nazionale antimafia si badi bene!) se avrebbe dato un premio a Silvio Berlusconi per la sua attività antimafia. Entrambe le volte il procuratore ha risposto positivamente. Anzi, la seconda volta ha ribadito: Certamente sì ».
Il magistrato Antonio Ingroia, alle domande dei cronisti in merito a tali dichiarazioni risponde: «Non diamo meriti a chi non li ha».  Ebbene, il “nostro” procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso ha attaccato il Magistrato Ingroia in quanto reo di fare troppa politica!
Ingroia conosce bene i tempi in cui Falcone prima, Borsellino dopo, furono abbandonati ed emarginati proprio dalla Magistratura di allora. Quell’epilogo lo conosciamo tutti.

Riattraversare i momenti storici e le sue vicende è anche un modo per capire che cosa è oggi il nostro Paese e cosa continuerà ad essere nei prossimi anni, se il nostro modello culturale non verrà ricompilato e questo “sistema” non verrà smantellato.
La rivoluzione da intraprendere deve essere perciò principalmente quella culturale, mettendo all’angolo coloro sono disposti ancora a credere ad individui come Bossi, Berlusconi o ai 94 senatori (quasi tutti del PD) che hanno votato contro i tagli alle pensioni d’oro e cercare di ricompattare le file con chi invece oggi continua a credere e a sperare scommettendo su sé stessi e sui milioni di italiani che hanno sempre lavorato ogni giorno onestamente.
Occorre farlo in fretta, affinché nella voragine della disperazione non cadano altri onesti lavoratori, umiliati e derubati da uno Stato “ladrone” o “pappone”.
Bisogna dimostrare loro che non sono soli, che singolarmente e coralmente si può. Che la serenità è ancora possibile. Che esiste ancora, una pace senza morte.

Io vulesse truva' pace                 S'arapesse na matina,
ma na pace senza morte.            na matin' 'e primavera,
Una, mmiez' 'a tanta porte          e arrivasse fin' 'a sera
s'arapesse pe' campa'!               senza dì: "nzerràte llà!"
                                                   Eduardo De Filippo







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